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Francesco Cusa - Official Website - Press

Bellissima recensione per The Lenox Brothers. - Percorsi Musicali - il:2021-10-16

Bellissima recensione per The Lenox Brothers. - Percorsi Musicali
Ettore Garzia
https://www.percorsimusicali.eu/2021/10/14/notturni-rivelatori-the-lenox-brothers/?fbclid=IwAR1uXT-BTJMXjhMtc9N135IzahnoOqv4a0bD5jLqskkDSB870YjP0WMuU8A
“…Not everybody knows about Gianni’s passion for certain TV series from the ’60s and ’70s…[..] Or about his passion for Simenon, and the suspense of certain noir fiction he sometimes colored his voicings at the piano with…” (Gianni Mimmo su Gianni Lenoci, note di copertina di Township Nocturne).
A proposito di George Simenon, c’è un suo romanzo che inquadra un paio di dimensioni fondamentali dell’autore: in L’Homme qui regardait passer les trains Simenon inventa la storia di Poppinga, un impiegato di una ditta navale olandese che ad un certo punto della sua vita rompe la routine del suo lavoro per immergersi in una nuova vita piena di pericoli e sfide; Poppinga segna le vicende di un uomo libero e alla ricerca di un’identità di cui non sa calcolare le insidie. Il tenore letterale di L’Homme qui regardait passer les trains passa da un irrilevante incedere ad una ficcante forza erosiva degli eventi tenuta nascosta dentro: è esattamente l’equivalente di quel gioco rilascio-tensione che abbiamo imparato a trasporre nella musica di ogni tipo.
Le finzioni sono possibili realtà. Hanno un proprio modo di manifestarsi e hanno anche ottenuto un proprio “suono”, quello che oltre cento anni di cinema e mezzi visivi gli hanno attribuito attraverso colonne sonore, films o rifacimenti televisivi, travasando nei significati psicologici quanto rinvenibile dalla letteratura e dalle altre arti. Il trio di Gianni Mimmo, Pierpaolo Martino e Francesco Cusa, non fa altro che ritrovarsi su quel groove subodorato della finzione, ma ha un vantaggio, quello di poter agire senza limiti geografici e temporali e perciò la session di Township Nocturne può dedicarsi alle notti di Monopoli e allo stesso tempo offrire omaggio ulteriore al pianista Gianni Lenoci, il più efficace sperimentatore di quelle notti. I tre sono diventati, perciò, The Lenox Brothers.
Ma Township Nocturne è anche un’espressione d’arte e se volessimo catturarne un esempio potremmo rivolgerci a The Meanwhile Groove, dimostrazione lampante che riunisce effetti apparentemente opposti: se è vero che nel mezzo del brano Mimmo simula involontariamente con i multifonici il treno di Simenon accompagnato da un innesco ritmico preciso, è anche vero che tutto il resto che viene prima e dopo quell’evento sembra scolpire un’immagine pittorica a metà strada tra un post-impressionismo e l’arte astratta.
Penso che i tre musicisti vivano qui la loro migliore dimensione possibile: Mimmo suona sempre meglio, è in grado di punteggiare o di allungarsi perfettamente, di dirigere il suo soprano sulle dinamiche giuste, riuscendo sempre a trovare soluzioni di sfogo e sviluppo della trama improvvisativa imprevedibili (toccare con mano il benessere emanato della title track o le evoluzioni veloci e quasi rough sulle sintonie di The Ride); Martino è splendida fluttuazione del contrabbasso, pulsazioni particolari come qualcosa che somiglia ad una oscura scossa di potenza che sta per buttarsi fuori (vedi per esempio South Bay Drive – Bay Lanes), ma è anche caustico nelle fasi di utilizzo dell’arco (Insistent/Persistant); Cusa alterna il libero arbitrio della batteria con fasi ritmiche temporanee, spesso trattandosi di tempistiche rock (A Waving Recall è piena documentazione di un ritmo che potrebbe portarvi indietro verso il periodo elettrico di Davis).
E’ triste dover registrare in un luogo che guarda al vuoto di un pianoforte che sarebbe spettato a Gianni Lenoci, anche se Gianni Mimmo ha compiuto un perfetto processo di sostituzione con il suo sax e non mi pare inutile sottolineare come nella title track di questo lavoro Mimmo si produca nel finale in un incomprensibile artefatto vocale che sembra un rito di riconoscenza. Nell’idioma dei The Lenox Brothers (per chi conosceva Gianni Lenoci sa che egli usava le x finali nella sua corrispondenza, da questo si arriva a Lenox) c’è una doppia verità da soddisfare: una riguarda i musicisti coerenti e la loro voglia di misurarsi su canoni lontani da quell’efferato bisogno di semplicità di cui si nutre il mondo del jazz (e di cui Lenoci ne aveva sottolineato spesso la sterilità); l’altra, invece, si può trovare nell’explicit del romanzo di Simenon succitato, quando Poppinga mostra al medico dell’ospedale psichiatrico il suo quaderno per dimostrare le ragioni della sua turbolenza, ma dove però non c’è scritto nulla: “… E Popinga, con un sorriso forzato, si sentì in dovere di mormorare: «Non c’è una verità, ne conviene?»…“.

"Novelle Crudeli" - Romanzi ispirati dal jazz - - il:2021-09-16

https://www.chiediame.com/post/romanzi-ispirati-dal-jazz?fbclid=IwAR0mJ8tv1vAPqAvsicNqz1wbn7CW6ZvB0TeFufxb0LnTYBkiqHTWvsTghz4

Felicissimo di essere in questa nobile compagnia di romanzi. “Quando un jazzista si mette a scrivere. Batterista, compositore, scrittore, classe '66 ha suonato con tutti i migliori. Da Paolo Fresu, Gianni Gebbia a Andy Sheppard, Kenny Wheeler, Don Byron e molti altri.
Descrizione di Novelle crudeli di Francesco Cusa
Stimati professionisti schiavi del delirio consumato nel segreto dei propri appartamenti, donne sadiche e vendicatrici che trasformano l'omicidio in virtù, vite stravolte da logiche subumane e percezioni allucinate che non possono avere un lieto fine. Con ironia, stupore e malcelato disgusto, il narratore ci porta al centro di un inferno fatto di piccole tragedie domestiche dai toni splatter, morbosità patologica dei rapporti interpersonali e ripugnanti legami di parentela che possono tormentare sino alla follia. I personaggi di Cusa sono guidati da meccanismi mentali deformi, esseri mostruosamente banali che solo nell'incoscienza e nella morte si riscattano da un'esistenza apatica. L'autore usa il fantastico, l'horror più macabro e il surreale per raccontarci ciò che di più basso smuove i vizi, gli istinti e le morbosità dell'uomo contemporaneo. Cinico e impietoso ci descrive un'umanità malata incapace di redimersi.
Leggendolo mentre aspetto che mi lavino la macchina (era dannatamente sporca) mi sembra di essere immerso nel futuro, sia per la sensazione di solitudine che associo più o meno inconsciamente all'evoluzione digitale, sia per il precipitare delle parole (sempre profondamente curate) che descrivono con velocità pazzesche, a volte con l'aiuto degli stessi a capo per isolare i concetti, sentimenti e decadimenti dell'essere umano. Confondendo reale e narrato, percepisco lo stesso addetto al lavaggio quale funzionario di stazioni intergalattiche, tendenzialmente ostile, Francesco Cusa quando scrive non sembra aver fiducia nella massa, neanche nell'essere umano e, probabilmente, neppure in sé stesso. Alla fine l'unica faccenda nobile a questo mondo e in qualsiasi altro è abbandonarsi e stare ad osservare ciò che avviene, tanto più la fine. Farsi frullare dagli spazzoloni del lavaggio e uscirne scheletro lucente.
Altro straniamento: mentre mi giunge sul collo il pulviscolo umido, residui dell'incessante opera del lavaggio auto, mi pare di essere ripiombato dentro Canti del Caos di Antonio Moresco, da cui mi sono staccato proprio per far posto ai Racconti di Cusa. Moresco è un maestro del nitido caos, mentre Cusa preferisce lo scarto improvviso, l'aggroviglio, la sedimentazione, eppure la matrice è paragonabile. Basta così, macchina pulita e profumata.
Aggiungo che Novelle Crudeli è stato illustrato da Daniele La Placa, che lo ha immerso nel sogno, il che istintivamente mi ha consentito di accostarlo ad una graphic novel pur non essendolo e non tanto per le illustrazioni, quanto per lo stile e la solitudine dei personaggi. Eroi alla rovescia, pronti a uccidere e a farsi uccidere, perché alla fine la loro stessa morte è l'unica purificazione possibile. L'ironia amara balena pure lei costantemente in mezzo allo sfacelo, a scariche elettriche nel panorama plumbeo, a colpi di pistola. Da leggere, scegliendo tra le circa 300 pagine i racconti preferiti (per me Virgen 45)”.

Recensione Concerto: FCTRIO – “The Uncle” Gianni Lenoci Ricordato In Una “Prima Assoluta” Per La Filarmonica Laudamo Di Messina - il:2021-08-28

https://www.scomunicando.it/notizie/fctrio-the-uncle-gianni-lenoci-ricordato-in-una-prima-assoluta-per-la-filarmonica-laudamo-di-messina/?fbclid=IwAR1H3n-04yFYDpQ4WcoSKwO2jwSMpKev_QYt8xI98FDRVIJpXL8j_VHbwg4

FCTRIO – “The Uncle” Gianni Lenoci Ricordato In Una “Prima Assoluta” Per La Filarmonica Laudamo Di Messina


– di Corrado Speziale –



Il batterista Francesco Cusa si è esibito a Messina con il suo nuovo trio, riunito per la prima volta, con Tonino Miano al pianoforte e Riccardo Grosso al contrabbasso, in uno straordinario concerto dedicato al musicista e pensatore Gianni Lenoci, scomparso nel 2019. L’evento si è svolto il 22 agosto nello spazio del Museo Regionale di Messina, nell’ambito della centesima stagione della Filarmonica Laudamo, per la rassegna “REState al MuMe”. L’importante e piacevole novità è stata ulteriormente arricchita dal rientro a Messina del pianista Tonino Miano, dopo 27 anni trascorsi intensamente negli Stati Uniti.

“The Uncle”, soprannome dato dagli amici a Gianni Lenoci, è anche il titolo dell’album del 2020 in cui il compianto pianista pugliese era stato protagonista nel Francesco Cusa Trio.

Su tale album è stato articolato il concerto, con l’aggiunta di una bellissima ballad composta da Lenoci. Si sono rivelati straordinari alcuni momenti dedicati all’improvvisazione, tra cui il rientro finale sul palco.

Luciano Troja: “Per realizzare questo concerto nella stagione che si è interrotta abbiamo dovuto inseguirlo… È un omaggio che mi sembrava giusto fare, considerato il lungo tempo per poterlo realizzare”.

L’amarcord: Francesco Cusa e Gianni Lenoci avevano suonato insieme a Messina, sempre per la Laudamo, il 26 ottobre 2017, proponendo un progetto dal titolo “We Cats”.


Quando le basi artistiche sono di prim’ordine e le motivazioni lo sono altrettanto, unite alla passione e al sentimento, per tre musicisti come Francesco Cusa, Tonino Miano e Riccardo Grosso, bastano poche ore di prove pomeridiane per entrare in sintonia e creare un interplay sorprendente.

Francesco Cusa è un artista singolare, unico nel suo mondo: batterista che ha studiato anche da pianista, compositore, scrittore, poeta e altro ancora. Un creativo a tutto campo, libero, visionario, ben distante dai canoni usuali cui siamo abituati. Ha un rapporto appassionato con la sua batteria da cui fa volteggiare il suono, articolando magnificamente i ritmi con taglio leggero e coinvolgente.

I quasi trent’anni “americani” di Tonino Miano, pianista messinese di rientro da New York, dove è stato artista d’avanguardia, si notano tutti: la tecnica eccezionale che ha dimostrato di possedere è alimentata da un’energia fuori dal comune e supportata da tanta conoscenza. Ne godrà certamente il pubblico siciliano, e non solo, che da qui in poi lo vedrà impegnato a suonare sui palcoscenici. E certe scelte sono ben studiate e meditate. Le “assonanze” tra Miano e Lenoci le descrive così Francesco Cusa: “È incredibile! Il suo tocco ricorda molto il modo di approcciare i brani di Gianni Lenoci. Ovviamente hanno cifre stilistiche diverse, ma molto affini”.

Punto d’appoggio fondamentale del trio, a far da raccordo tra Miano e Cusa, è il giovane contrabbassista Riccardo Grosso: le sue corde vibrano in profondità tra il rullare della batteria e l’incedere intenso e variegato del pianoforte.

Il ricordo di Gianni Lenoci: il pianista compositore è venuto a mancare il 30 settembre 2019, ma le sue infinite idee musicali adesso possono trovare continuità grazie ad artisti come Francesco Cusa, che gli era amico e collega. Tra i due c’era una passione condivisa per la musica, ma soprattutto erano uniti, in maniera empatica, nella stessa visione del mondo.

“The Uncle”, soprannome dato dagli amici a Gianni Lenoci, è anche il titolo dell’album del 2020 in cui il compianto pianista pugliese era stato protagonista nel Francesco Cusa Trio. L’album, doppio, speculare, un fronte rosso, l’altro nero, con gli stessi brani interpretati da due formazioni differenti, si sarebbe dovuto intitolare “Giano Bifronte”, ma la prematura dipartita dell’amico musicista ha indotto Francesco Cusa a trasformare tale appellativo in sottotitolo e ad inserire tra i cd un fascicoletto di poesie per la persona speciale che non c’è più. “Gianni è andato via poco prima l’uscita del disco. Negli ultimi giorni della sua malattia, quando nessuno pensava che sarebbe finita così, non vedeva l’ora che l’album venisse pubblicato. Ci teneva tanto a questa cosa”.

Cusa e Lenoci avevano suonato insieme a Messina, sempre per la Laudamo, il 26 ottobre 2017, proponendo un progetto dal titolo “We Cats”. “È stato un concerto indimenticabile”, ricorda Luciano Troja. Cosicché, c’è un filo sottile che lega il 2017 al 2021 che sta nel sentimento e nella visione comune dell’universo musicale e della vita. Il direttore artistico della Laudamo ha così ricordato Lenoci dal palco:“Era una persona che vedeva la musica a 360 gradi. Nonostante all’estero avesse avuto grandi riconoscimenti, rimaneva sempre fuori dai riflettori. Il fatto di essere così importante e profondo stando fuori da vetrine e passerelle, l’ho trovato uno dei motivi più importanti per poterlo rappresentare e ricordare oggi”.

Un altro pensiero è ritornato su Lelio Giannetto, grande musicista e ricercatore palermitano, portato via dal Covid l’anno scorso, che domenica scorsa avrebbe compiuto sessant’anni. La Laudamo gli aveva dedicato l’evento precedente.

Al concerto è stato protagonista un jazz senza limiti di sorta, intenso e variegato, frutto di idee, percorsi e incroci di conoscenze, dove l’improvvisazione si è ben innestata sui temi.

Non sono mancati angoli di introspezione, in cui la densità musicale ha lasciato spazio al pensiero.

È una musica che riflette in pieno il carattere di Francesco Cusa, autore di quasi tutti i brani proposti, che Tonino Miano elabora e “narra” magnificamente al pianoforte. E dire che in presenza si erano visti soltanto poche ore prima!

L’eccentricità dei titoli, quasi tutti con ypsilon finale, non passa inosservata.

Cospirology avrebbe un’ispirazione intrigante, che si ritrova nella seconda parte del brano, dopo tempi e note che partono da un jazz riconoscibile per poi innalzarsi verso una fusion straordinaria.

Stessa sorte tocca ad Anthropophagy, che ha come ispirazione la pace nel mondo. Qui sarà il piano di Miano a decollare, trascinando il trio su variazioni entusiasmanti.

Ai tempi di “Uncle” non c’era ancora il Covid. Chissà come Cusa riscriverebbe adesso Pharmacology…! Qui il dialogo tra batteria e pianoforte crea una storia che si fa apprezzare tantissimo.

Prima del prossimo brano, spazio ai tre in assolo che delizieranno il pubblico con straordinarie improvvisazioni: puramente creativa quella di Miano al piano; profonda e vibrante quella di Grosso al contrabbasso; articolata, morbida e leggera, quella di Cusa alla batteria, con bacchette feltrate.

Reumatology è un bellissimo jazz dall’incedere veloce, ottimamente ritmato e strumentato.

Dr Akagi presenta un sound agile e brioso, in un percorso particolarmente elaborato da un pianoforte sempre in grande evidenza e dai virtuosismi alla batteria.

Fagan, brano di Gianni Lenoci, è una splendida ballad dove piano e contrabbasso si affiancano lentamente, mentre le spazzole di Francesco Cusa, vibrando nell’aria, accarezzano la batteria.

Il brano di rientro, che fa da bis alla fine della serata, è tutta un’improvvisazione che scorre su tempi elevati e mette in mostra equamente le abilità e la passione dei tre protagonisti.

Disturbi durante il concerto: la volta scorsa avevamo scritto della maleducazione di molestatori armati di karaoke, o qualcosa di simile, lungo il viale della Libertà. Lo ribadiamo ancora, anche se non fa più notizia: prevale la musica, anche a volume nettamente inferiore!

Recensione di "Vic" per "Provincia Letteraria", a cura di Francesco Gianino - il:2021-06-28

Uno, Vic (Algra, 2021), fa la sua vita, e se la fa da solo soprattutto quando è in relazione con gli altri; nella solitudine rafforza il proprio ego anche quando l’altro va via o muore: per lui è un’opportunità per riprogrammare l’esistenza. E tutto questo è eticamente scorrettissimo, ma Vic esiste per dare mazzate sulla gobba dei sentimentalismi e delle pratiche morali comunitarie, mazzate ai costruttori di storie politicamente corrette, mazzate al lettore standard di sentimenti depurati. Vic è uno che quando si racconta fa satira, invettiva, sarcasmo. Troppo odioso, ma troppo infelice. Sessista, vero nazista del buonismo, disumano a parole. Non si riconosce nella città di provincia in cui vive (l’incipit del romanzo è un omaggio pirandelliano), e poiché non può sfuggire al proprio destino, si fa personaggio di se stesso.

Vic è una persona di cultura, legge filosofia orientale, vive di rendita, vuole fare lo scrittore. Nel film Sogni D’oro di Nanni Moretti c’è una famosa scena in cui il protagonista parla con la propria ex e dice, seduto al tavolo di un caffè, “Sono un mostro, sì sono un mostro e io ti amo”. Lei, una giovanissima Laura Morante, confessa la volontà di riprendere la relazione, lui invece, diventato una specie di dottor Jekil, non si riconosce in quei sentimenti, fa spaventare la donna e la insegue gridando: “Non voglio morire, non voglio morire!”. Il film è in qualche modo suggerito dalla parodia che ne fa l’autore di Vic dove si racconta la relazione con Lidia, la travolgente Fisioterapista, che entra nel romanzo dalla porta di casa come in un video youporn. L’autore innesta deformando anche un’altra scena tratta da “Ecce Bombo” in cui Moretti al telefono vorrebbe che “ci innamoriamo di me”. Nella smania egocentrica (parlare sempre e comunque, bene e male, di sé riducendo gli altri a una appendice della propria necessità), Vic stesso rimane prigioniero: (come anche il lettore) non distingue il piano della vita da quello della finzione fertilissima. Il lettore cerca una realtà, ma il romanzo non è sulla realtà di Vic, bensì sul ciclopico tentativo di uscire fuori dal narcisismo, dall’amore subdolo per se stesso e per il proprio corpo, ed espletare un parto che non si realizzi sul piano della Storia, ma in quello della creazione di un’opera che per Vic, solo per Vic, sarebbe un riconoscimento di status sociale (il Contratto, l’editore). L’opera è un prodotto narcisistico dove specchiarsi nell’altro equivale a mangiare e digerirne la carne. E se l’altro non è del tutto digeribile (la madre, la libertà delle fidanzate), la morte è un sollievo benefico che permette di riprogettare l’estensione del proprio ego.

Vic estende una volontá sarcastica e fa banchetto carnivoro. In questo barbecù in cui la carne vaporizza l’anima aria al vento, i sentimenti (amore, fedeltà, amicizia) sono l’orrido, orrido perché prodotto, nella visione narcotizzata dal fallimento esistenziale, di un falso umano: le ipocrisie del festival dell’utile.

Eppure non è tutto qui. Una regione che i poeti chiamerebbero di amorevole luce, l’idea e la percezione che esista un banchetto celeste, senza guadagno o profumata costata di cavallo, senza allestire festa d’arrusti e mangia; un valore spirituale che è, in un attimo epifania d’assoluto, c’è, e l’ho ritrovato nel sorriso del jazzista. Nella mezza pagina dedicata al sorriso del jazzista c’è finalmente uno squarcio di luce metafisica, verità e realtà, non più climax euforico satireggiante, laddove tutta la vita di Vic sia un’esplosione di irreali menate giustificatorie della propria marginalità; e invece in questo musicista che inveisce contro le cricche dei festival jazz, c’è un sorriso hessianamente orientale rischiarante il flagello infernale della vita scopereccia o mangereccia. Ma dura troppo poco per Vic: lui indossa subito l’abito del Giovenale sarcastico: lancia e scudo contro il vuoto nel cuoricino del cuore del mondo di Cotrone.

Vic, che sta per Vittorio, o meglio per Victorio, italo vero-nazista americano, ama il gusto per il pastiche, il tono apocalittico, lo stile debordante, lo humor nero, e imbastisce un vero corpo a corpo contro le consolatorie convinzioni di ogni buon cittadino nostrano, piomba come un kamikaze sullo smanioso piacere onanista occidentale. Una Vittoria intellettuale che vale una sadica sconfitta esistenziale. Sarebbe bastato rubare quell’immensa umanità che trasuda dal sorriso jazz, costruirvi un tempio di salvezza, per spostare il sarcasmo in dolce pietas. E Vic alla fine della storia forse potrebbe averlo capito: più semplice riappropriarsi del proprio misero vissuto, anziché farsi abitare dalla folla di esistenze possibili partorite da film erotici alla fu Lino Banfi anni ottanta rivissuti xxx.net nella fantasia presente assente oppure un turbinio riprodotto lynchiano tarantiniano pynchoniano senza droghe …

Vic, vero romanzo d’autore, come solo tra i piccoli editori è possibile ancora trovare.

©Fgianino

Nel libro di Amedeo Furfaro anche una bella pagina per Francesco Cusa & The Assassins e FCTrio "The Uncle" - il:2021-06-10

Nel libro di Amedeo Furfaro anche una bella pagina per Francesco Cusa & The Assassins e FCTrio: "The Uncle Giano Bifronte di Francesco Cusa & The Assassins (II/Kut)".
"Aprire un album come The Uncle Giano Bifronte di Francesco Cusa & The Assassins (II/Kut) e trovarvi dentro un opuscolo con quat- tro sue poesie dedicate al compianto Gianni Lenoci, delicate, intense, che toccano le tematiche di cosa resti e persista dopo .... fa un certo effetto! Versi sull’amicizia che ė eterna e può esistere anche quando qualcuno non c’è più. Chi ha conosciuto Lenoci, non solo come piani- sta eccelso ma come persona, può capire quanto intensa possa essere la commozione, anche a distanza di un anno dalla morte, nel pensare di non vederlo più “live” nell’insegnare, concertare, inventare. La stes- sa disinvolta freschezza lui manifestava a livello umano e così si ce- mentavano i rapporti e comunque le relazioni di stima, apprezzamento, collaborazione reciproca, interplay fra musicisti. “Amico mio che fai/ in quel delirio di nubi/ lontano, con le mani in tasca?”. Difficile imma- ginarlo spento nel suo attivismo multitracce, multiforme, multimediale. Cusa lo ha frequentato, lo ha eletto a mèntore e percorrendone il solco stilistico più avanzato il batterista ce ne offre oggi delle inquadrature sonore “a futura memoria” in uno di due cd in questo album doppio che vede come ospite il saxtenorista Giovanni Benvenuti, nel trio ferrato dalla compresenza della vocalist-violinista Valeria Sturba (nel cd sen- za Lenoci) e del bassista Ferdinando Romano. Ma perché mai “Giano Bifronte”? Già la presenza di Lenoci, alla cui memoria il prodotto è intitolato, sta a simboleggiare come nel jazz si possa guardare indietro e avanti, e come poi certe “doppiezze” - come il post-bop avanguardiz- zato in free del FCT e la dolcezza poetica di fondo - alla fine si possano ricongiungere in unum. Persino lo scalpore di una batteria fumantina e pirotecnica come quella di Cusa può convergere in quel lirismo vivo che rende a suo modo unico questo progetto compositivo e di improv- visazione “volontaria”, nato per svelare il vero volto di Giano, quello invisibile “che guarda il presente e che, come l’occhio di Shiva, contie- ne tutte le realtà”.
Francesco Cusa
Giano Bifronte
Improvvisatore Invol. Kut, 2020
Corriere del Sud, 7-10-2020
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Antonella PaganiLe Strade del Jazz - Roma - il:2021-05-23

Antonella PaganiLe Strade del Jazz - Roma
21 maggio alle ore 16:51 ·
FRANCESCO CUSA TRIO/FRANCESCO CUSA & THE ASSASSINS "THE UNCLE (GIANO BIFRONTE)"
Improvvisatore involontario/Kutmusic, 2020
Doveva essere una collaborazione, è diventato (anche) un tributo. Il doppio cd di Francesco Cusa , batterista, compositore e scrittore catanese , originariamente intitolato “Giano Bifronte”, inciso con due formazioni impegnate nelle stesse cinque composizioni originali, è diventato “The Uncle”, in memoria ed omaggio all’arte ed alla vita del pianista barese Gianni Lenoci, scomparso prematuramente nel settembre 2019, poco più di un anno dopo l’incisione della session del Trio con Cusa, Giovanni Benvenuti ai sassofoni , e Ferdinando Romano al basso. Fin qui per la metà del lavoro distinta dal colore nero. Quella rossa, complementare, contiene l’interpretazione degli stessi brani a cura del gruppo Francesco Cusa & The Assassins,con Benvenuti, Romano e Valeria Sturba a voce, theremin, violino ed elettronica, al posto di Lenoci. La complessa articolazione dell’opera, due gruppi che suonano le stesse composizioni, già praticata da Cusa con “Jacques Lacan, a true musical story”, e due etichette in sinegia, Improvvisatore Involontario e Kutmusic, permette di confrontare, nell’arco complessivo di circa sessanta minuti, due diversi approcci ad una materia musicale fortemente strutturata, con parti tematiche dall’immediata presa e spazi di improvvisazione connaturati all’essenza delle composizioni. Il “gioco” concettuale del dualismo, espresso dal formato, trova riscontro anche nella struttura stessa delle singole composizioni, nelle quali parti tematiche ben definite e pronunciate da scanditi unisoni di sax e piano, ove fanno capolino echi di Monk, Steve Lacy ed Ornette, sono seguite da liberi spazi di improvvisazione di tutti gli strumenti, con cambi di clima anche improvvisi ed inaspettati.
Il contenuto di “The Uncle” si potrebbe raccontare così:
“Anthropophagy” : un tema iterativo elegantemente scandito contraddetto da uno swingante ed ironico passaggio, che apre ad una sezione dominata dal possente drumming di Cusa, base per gli interventi solisti del sax nello spazio definito dali interventi del pianoforte.
“Cospirology” : sax e piano protagonisti di un unisono tematico su scansione ritmica regolare e rassicurante, presto deviata verso un’esposizione del sax ed un’ampia improvvisazione del pianoforte caratterizzata da una progressione di clima emotivo fino al silenzio.
“Dr. Akagi” : un tempo decisamente più veloce apre la pronuncia del tema, per poi bruscamente entrare in una libera zona umbratile dove campeggiano il soliloqio del sax di Benvenuti e le frasi concatenate di Lenoci.
“Pharmacology”: ancora un tema in stile bop subito smentito da una misteriosa e minimale atmosfera informale sottolineata dalle percussioni e costruita dall’esteso dialogo fra un sax meditativo ed un pianoforte proiettato nel cosmo.
“Reumatology”: si parte da Ornette per entrare in una labirintica discesa verso l’assenza di forma nella quale gli accenti del sax sottolineano un pathos palpabile.
Ma si potrebbe parlare, più semplicemente, di una dialettica fra cuore e cervello, istinto e razionalità, struttura e astrattezza, forma e sua assenza.
The uncle 2
La versione degli Assassins degli stessi brani si concede qualche ulteriore libertà formale, propiziata dalla presenza, in luogo del pianoforte di Lenoci, di Valeria Sturba, musicista che usualmente esprime il proprio lato dadaista nel gruppo OoopopoiooO con Vincenzo Vasi. Qui è impegnata al violino, al theremin, all’elettronica ed in parti vocali /rumoriste che caratterizzano “Cospirology” con uno scat surreale e sulfureo, “Dr Akagi” con il doppiaggio del sax, “Pharmacology”” con giochi vocali iterativi ed il corredo di noise vocale, “Reumatology” con ricorrenti vampate elettroniche. Notevole il trattamento riservato alla composizione iniziale, che in questa versione, grazie agli apporti elettrici ed elettronici, porta il jazz a diretto contatto con l’heavy metal.
Completano l’opera quattro poesie di Cusa per l’amico, maestro e confidente Gianni Lenoci, quattro creazioni che compiono un piccolo percorso, attraversato dall’incredulità e lo stupore per la scomparsa, dall’analisi dell’essenza primordiale del musicista (C’era una volta Gianni Lenoci) fino alla dolente rassegnazione affidata al ricordo (Un amico).
Gianni Lenoci, che Tdj ha ricordato con questa splendida e profonda intervista, per la ristretta cerchia di amici era The Uncle, e questo doppio cd, possibile viatico per esplorarne, a posteriori, vita ed opere, è un bel modo, per tutti, loro che suonano e noi che ascoltiamo, di dirgli grazie.
traccedijazz.com

Su Musica Jazz un lungo articolo di Libero Farné sul mio libro “Il Surrealismo della Pianta Grassa” e sul mio ultimo cd “The Uncle”. - il:2021-05-17

Su Musica Jazz un lungo articolo di Libero Farné sul mio libro “Il Surrealismo della Pianta Grassa” e sul mio ultimo cd “The Uncle”.

Recensione di The Uncle per Jazzit - il:2021-03-12

"...tipica della produzione di quel geniale personaggio che risponde al nome di Francesco Cusa".

Un mio scritto dedicato alla scomparsa di Lelio Giannetto per il Giornale della Musica. - il:2021-01-02

https://www.giornaledellamusica.it/articoli/addio-lelio-giannetto-generatore-di-mondi?fbclid=IwAR2c9oscoF7UwMVhbFkflRMXBLXUreUeQAK4hec1VJDZQDjsucBY5MpoGRY#.X-ycpy3XMUM.facebook

A LELIO

di Francesco Cusa

Chi scompare porta via con sé un pezzo del nostro vissuto.
Naturalmente.
Quando poi scompare un artista si chiude il sipario.
Si rimane al buio.
Senza luci.
Senza spettatori.
Al buio.
Passano i minuti.
Passano le ore.
Passano i giorni.
Poi uno si alza.
Cammina tentoni e con fatica ritrova la via d’uscita.
Eccola la luce del giorno con tutta la vita dentro.
Già.
Brulica ancora di vita questo mondo.
È trascorsa un’unica, immane notte.
Alle spalle, il teatro è chiuso, sbarrato, fatiscente.
Lelio Giannetto era un “teatro”. Di più, era il corpo, la panza, il culo, le braccia e le gambe della follia del teatro. Lelio, con quell’attaccatura dei capelli…
Pareva non cominciare dalla fronte, pareva non cominciare mai l’attaccamento della sua criniera, pareva quasi il prolungamento delle sopracciglia, quella folta chioma, pareva la chioma di una chimera.

Conobbi Lelio quando, boh? Sarà stato il 1989. A ben pensarci sono oltre trent’anni che ho a che fare, a fasi alterne, con questo straordinario, strabordante generatore di meraviglie e sommo fracassatore di palle.
Insomma, ci siamo presentati nel 1989. Allora ero appena arrivato a Bologna, e lui suonava nel locale della deliziosa Anna Assenza insieme alla buonanima di Vittorio Villa e al mitico Gianni Gebbia. Alla fine del concerto mi avvicinai, ciao di qua e ciao di là… in buona sostanza mi liquidò malamente. Se la tirava. Antipaticissimo. Vabbè, dopo qualche anno finimmo con l’abitare insieme, in quel di Laura Bassi a Bologna, con quell’altro pelandrone e gigantesco pianista che risponde al nome di Fabrizio Puglisi (vedi foto “La domenica delle pulizie”, in apertura).

Vi potete solo immaginare cosa abbia significato una simile convivenza. A voler sintetizzare era una specie di fratellanza punk-jazz-sicula-orientale-occidentale-vessatoria-goliardica, composta di generosità, tranelli, massacri e benedizioni (una volta entrò un pipistrello in bagno e io ero terrorizzato… avreste dovuto vedere Lelio bardato in una sorta di burqa colorato, marciare con un secchio in testa in direzione cesso. Dalla finestra a vetri assistevamo timorosi a una sorta di lotta accelerata, come in una comica degli anni Trenta che potremmo titolare: “Lelio e il Pipistrello”. Ah, avreste “anche” dovuto vedere la sua uscita trionfale: ”L’ho fatto uscire, l’ho fatto uscireeee!” Macché; il pipistrello si era nascosto dentro lo scaldabagno e, indovinate chi ebbe la peggio? Naturalmente il sottoscritto, durante una delle mie regali abluzioni notturne. Per giorni nessuno osò entrare in bagno e Lelio ebbe la geniale idea di attaccare un cartello sulla porta: “Attenzione, pipistrello in bagno!”). Potrei andare avanti per pagine e pagine… quante ne sono successe… non mi dilungherò oltre.

Vorrei dirvi che Lelio era/è così, “donchisciottesco”. Partiva/parte lancia in resta a bucare il culo dell’Accademia, il suo culo, quello degli altri, il culo del jazz, il culo della musica improvvisata, tutti i culi poggiati comodamente su poderosi scranni, ma anche quelli dei poveri cristi col culo per terra, il culo della Luna, il culo del Sole, il culo di tutto il sistema solare eccetera eccetera fino ad arrivare al buco di culo di Satanasso, del Demiurgo e via discorrendo.
Voleva sbucare dall’altra parte, Lelio, per smontare il resto dello Scibile a colpi d’archetto.

Se ci pensate bene, Lelio è stato una maschera del nostro tempo cosmetico, il “Giannetto”, una sorta di figura retorica, di Bagatto, di saltellante generatore di mondi, di scomodo agitatore sonoro.
Se ci pensate bene, Lelio è stato una maschera del nostro tempo cosmetico, il “Giannetto”, una sorta di figura retorica, di Bagatto, di saltellante generatore di mondi, di scomodo agitatore sonoro. Non stava mai fermo! La sua era una danza incessante, centripeta e centrifuga, un moto perpetuo metropolitano e di provincia, una sommatoria di segni che ti costringeva a prendere atto del “limite”, della crepa del sistema. Era tutto un fare: piglia di qua, molla di là, smonta a destra, rimonta a sinistra, e il contrabbasso, e l’archetto, e la rassegna, e i biglietti dell’aereo, e vaffanculo, e ti amo, mi inginocchio, ti voglio bene, vai a cagare, con te ho chiuso, sei un grande, mi hai fatto commuovere, Cusa va caca, e smorfie, a sacchi in testa, e piririripiri, e paraparapara, Lelio in che cazzo di B&B mi hai messo!, scendi, sali, chiudi, apri, richiudi, non aprire… ho perfino messo un suo messaggio alla mia segreteria telefonica come ghost track nel cd Psicopatologia del Serial Killer.

Distruttivo e creatore come solo uno del segno del Leone può essere, Lelio è anche una parte del mio vissuto, e si porta dietro tanta della mia luce e tanta della mia ombra, nonché gli ardori della nostra forza del passato. Terrò sempre una sua foto sulla mia scrivania, assieme a quella dell’altro mio amico fraterno Gianni Lenoci e, credetemi, non è retorica, mi piace pensarli adesso insieme come pura essenza di radice, ein sof, spirito puro, in altre parole santi, che questo diventano poi gli artisti.

Stasera soffia forte il vento nella mia nuova dimora e gli alberi ondeggiano a salutare il Lelio Don Chisciotte. Lo vedo risalire come una saetta in una spirale di cielo, nel buio della notte piovosa che si fa teatro, con i suoi occhi spiritati e la risata che scoppietta. Ma è stato un attimo. Sono riapparse adesso le sparute luci natalizie, che brillano della modestia delle case male addobbate. Paiono frequenze altre, distanti e siderali testimonianze del culto dell’uomo, cose che Lelio ha oramai superato per sempre e che rimangono attaccate a noi come orpelli di un presente che scivola inesorabilmente con le nostre lacrime.

Il mio gatto Lucrezio dorme sul divano. È il suo primo giorno, qui nella sua nuova casa. È il nostro primo giorno di sempre.

PS: Rimane l’enorme lascito del suo lavoro e il dovere morale di portare avanti la sua opera tramite un processo collettivo che possa raccogliere le sue infinite manifestazioni e la complessità della sua esistenza.

Francesca Calì recensisce “Il surrealismo della pianta grassa” di FRANCESCO CUSA, edito da Algra Editore - il:2020-10-26

LE NOSTRE LETTURE

“Il surrealismo della pianta grassa” di FRANCESCO CUSA, edito da Algra Editore

Potrei sembrare strana ma, di solito, mi piace leggere la prefazione di un libro solo dopo averlo letto. Questo perché non voglio farmi influenzare nel giudizio (che resta comunque il giudizio umile di chi legge e scrive solo per passione). Con questo libro, però, mi sono dovuta fermare un attimo e, dopo aver esclamato “questo è folle”, sono andata a pagina 7 dove trovo la prefazione di Valerio Corzani che esordisce scrivendo: “Non è un esercizio semplice quello di introdurre un libro di Francesco Cusa. In particolare questo”. E poi a pagina 11, Pier Marco Turchetti, altra prefazione, sentenzia: Cusa, Proust con il telecomando in mano.

Allora capisco che non avevo sbagliato. Cusa è un artista poliedrico che con questo libro vi introduce nel suo folle mondo fatto di grande attenzione per i piccoli dettagli della vita. Vi farà osservare episodi di vita quotidiana con altri occhi, quelli di un grande osservatore.
Il surrealismo della pianta grassa è una dissertazione sulla vita, oserei dire un saggio di filosofia in chiave moderna.
Ben 94 tra monologhi, pensieri e aforismi scritti con un inizio ed una fine racchiusi in massimo 2 pagine. Cusa ci porta nell’attesa di uno studio medico, in un bar dove un barista accigliato gli serve un cappuccino-brodaglia senza schiuma, sul palco di Sanremo nella serata dedicata ad Allevi, e poi di nuovo in giro per le officine meccaniche catanesi alla ricerca di un povero Cristo che sappia riparare il cavalletto del suo vecchio scooter. Turchetti parla di zapping, ed è proprio così! Cusa invetta da un argomento ad un altro con la stessa velocità con cui cambi canale alla TV. Mentre leggevo, però, ho immaginato che tra un canale e l’altro ci fosse un drumming di attesa suonato dallo stesso Cusa. Così dovete leggerlo, immaginando il crescendo di una percussione.
E poi, capitoli interi dedicati ai giochi parole e agli anagrammi che ci offre la lingua italiana, con sarcasmo e grande ilarità. Cusa non è certo uno che le manda a dire. Scrive quello che pensa e pensa quello che... boh!

Entrare nell’universo “Cusano” non è facile, come dice Giuseppe Carbone nella postfazione, ma io aggiungo che una volta che ci sei dentro non vuoi più uscirne. Consiglio di non posare nella vostra libreria questo libro, una volta finito di leggere, ma di lasciarlo lì sul vostro comodino, come un oracolo: prima di andare a dormire ponetevi una domanda ed aprite il libro in una pagina a caso, lì troverete la risposta!
Con “Il surrealismo della pianta grassa”, Cusa si esibisce nella sua migliore performance.

PS. Volete sapere perché questo titolo?
E perché devo dirvelo io? Andatevelo a cercare su YouTube in una delle tante interviste fatte a Cusa.
Scusate mi sono fatta contagiare dal pensiero Cusano

Francesca Calì