UNO SCRITTO SUL MIO ROMANZO “VIC” EDITO DA Algra editore. LO SCRITTO È DI Salvatore Nastasi. - il:2022-06-20
UNO SCRITTO SUL MIO ROMANZO “VIC” EDITO DA Algra editore. LO SCRITTO È DI Salvatore Nastasi.
Francesco Cusa sa scrivere, e su questo almeno, mi sento di scrivere che non ho alcun dubbio.
Sa scrivere e ce lo dimostra nel suo romanzo Vic.
Romanzo quasi senza storia, senza trama, uno di quei romanzi per cui sarebbe inutile e ridondante rinnovare il detestatissimo mantra: “Ma di cosa parla questo romanzo?”
Eppure, che romanzo sia (o ad esser pedanti magari racconto lungo) non v’è alcun dubbio.
E non vi è alcun dubbio in quanto l’autore riesce ad evocare istantaneamente e a dispiegare ciò che rende un romanzo tale: un mondo; che poi sia un mondo della mente o un mondo di fantasmagorica provincia è questione per nulla prioritaria!
Francesco Cusa sa scrivere, dicevo. E ce lo dimostra in tanti passi, come l’efficacissimo incipit. Efficacissimo nel mettere da parte ogni dubbio sul fatto che quello che abbiamo tra le mani non è un romanzo contemporaneo come tanti, così frettolosi di introdurci nel mondo reale del protagonista, tutti frettolosi di dispiegare i fatti, i modi, i tempi, i luoghi e le azioni.
Psichedelico e d’atmosfera sin dall’inizio, lo stile di questo romanzo è frutto di letture e di un modo di approcciarsi alla vita e alla scrittura che annuncia chiaramente tutto quello di cui siamo esausti, tutto quello di cui non se ne può più: la famiglia tradizionale, la patria ormai esplosa e ridicola, un dio completamente centrifugato nel vortice dei fantasmi di cui è costellata la narrazione, contorta eppure limpida, un “resto del mondo (che) andava collassando a velocità esponenziale verso l’assurdo della tecnoscienza”.
Torna subito alla mente la migliore tradizione di scrittori in rotta di collisione, definitiva e senza compromessi, con la smania idiota e auto-distruttiva planetaria e con i suoi riti macabri: da ArthurRimbaud a Henry Miller, da Louis Ferdinand Celine a Michel Houellebecq col loro stile teso ad accostare l’inaccostabile, a far deflagrare l’ovvio, il banale.
Ci sono passi di una forza e di una suggestione che fanno venir voglia di prenderli di peso, estrarli e inserirli nel proprio prossimo romanzo: “Detestava i check-in, gli aeroporti e gli aerei, anzi, in realtà, amava volare, ma era terrorizzato dal controllo, dalle norme di sicurezza, era angustiato dall’asetticità del numero (15A, 17F…) e dalla maniacalità del rito delle hostess. Queste gli parevano piuttosto delle infermiere aduse e stanche, delle streghe in divisa, belle anime reiette e dannate al volo.”
Quando il romanzo vira dalla terza alla prima persona e poi ancora alla terza non si può fare a meno di rimanere straniati, ma di questo effetto temporaneo è ovviamente consapevole l’autore che ci trascina nella sua personalissima esposizione del perché proporre al lettore una storia lineare e dai punti fermi sia ciò che esattamente tradirebbe uno spirito dei tempi di cui l’autore osa mostrare la marcescenza, l’inevitabile processo di putrefazione.
Il fascino che il profilo dei morti su facebook esercita sul protagonista e una delle sue amanti (vere o finte, reali o inventate) è d’altronde la cifra perfetta di questo spirito dei tempi che altro non si esplicita se non in immagini di zombie che divorano i loro tempi, eminentemente morti anch’essi, nel riguardare ipnotizzati la fissità di foto del passato e, nella consapevolezza lacerante dell’impossibilità di ogni futuro di speranza, si rifugiano nel ricordo, in un ricordo morto, nel ricordo dei morti e delle loro vite false, nelle immagini selezionate della vuota esibizione di contentezza, morte anch’esse quand’anche in vita.
In mezzo a questi morti, a questi fantasmi, a questi zombie e a questi mezzi in vita, nei tempi assolutamente solipsistici ed eternamente sospesi di un supposto paesino di provincia, pieno di alienati e di trapassati, si muove, o meglio barcolla, incede stentatamente, pirotecnica nella sua mente, il protagonista in viaggi immobili sempre in bilico tra fantasia e supposta realtà, lynchianamente appunto, come viene, forse troppo didascalicamente, scritto.
Ed è che qui che l’asino casca e si azzoppa pure, e, a tratti, non si riesce più a tirarlo fuori da questa voragine!
Ché il linguaggio, pur di una mente in bilico, tante cose può fare, tanto può rivelare, e tanto ci può far capire, ma bisognerebbe sapere dove fermarsi e ci sarebbe voluto un editore, tutt’altro che ipotetico che avrebbe dovuto dirlo, avrebbe dovuto porre una qualche sorta di limite all’estrema indulgenza di certi passi.
Il linguaggio di questo romanzo, per quanto Cusa sappia scrivere, per quanto intenso, evocativo e psichedelico possa essere, a volte non sa chiaramente dove fermarsi, a volte si esagera nell’-auto-riferirsi, ci si compiace di queste scie cosmologiche, si perde completamente di vista qualsivoglia leggibilità.
“Il flusso del suo pensiero attivo continuava a spandersi come la supernova d’una galassia nello spazio siderale del presente” si legge nella prima pagina, e se pure percepisco che è un periodo che può parere e suonare un po’ lungo, un po’ pesante, un attimo astratto, soprassiedo e ne riconosco la bellezza, condono e vado avanti.
E quando si arriva a frasi e periodi spaparanzatissimi come quelli che cominciano a prevalere un po’ troppo specialmente da metà romanzo in poi, passi come quello della descrizione del sorriso di uno dei suoi conoscenti tramite cui si concede la grazia di ammazzare il tempo: “sapeva farsi perdonare in virtù del suo disarmante sorriso, giacché veder sorridere Marcello significava essere abbacinati dalla gioia, aver voglia di fuggire, di scappare nelle terre dei ghiacci perenni e infine vivere la colpa come essenza ultima e definitiva”, un passo che, sinceramente, a me, lascia abbastanza perplesso se non veramente confuso: come può un sorriso essere fonte di cose tante e contraddittorie cose e immagini? E soprattutto a che pro? A che serve questo nell’economia del romanzo?
E che dire di una pagina intera come questa???: “A vivere d’innesti, di confusione e illuminazione si corre il rischio di diventar santi. La dissennatezza del campare, senza soste né respiro, era il frutto della ricerca d’una quintessenza da carpire ogni singolo momento. Perfino lo stare pigramente al mondo appariva oramai atto teatrale funzionale alla mimetizzazione (??????). Occorreva essere vigili e attenti, come guardiani e asgardiani, perfino nel disagio della sbronza, della confusione mentale, della fatica fisica, dello spleen, della depressione. Vic voleva cogliere alla sprovvista la défaillance del Burattinaio, la crepa del Reale; ammesso e non concesso che ci fossero, poi, anche ‘sto Burattinaio e il grumo d’una qualche realtà! Per quanto fosse assurdo, egli ricordava tutto, ed era un tutto dal quale era impossibile scindere anche un solo frammento di non-tutto: un teatro in perenne scena, senza soste (di nuovo?). Una narrazione adiacente, contemporanea al flusso dei pensieri, alle azioni e alle necessità della vita, collocata su una corsia preferenziale della mente, dell’immaginario, del sentire, un canto in perenne evoluzione. E poi c’era la questione della morte, o meglio del morire. A Vic pareva che la morte fosse un epicentro, l’azione stessa della vita, il senso centrale di ogni esperienza, il frutto pulsante dell’iniziazione, l’origine di ogni possibile intuizione. Provava un desiderio d’inconfessabile ammirazione per i bambini addestrati dall’Isis…” (e pur essendo inconfessabile non si risparmia la stoltezza di farcelo leggere…).
Precedono e pure seguono paragrafi e quasi capitoli interi al limite del totalmente sconclusionato ed illeggibile tout court ma in molti casi ciò può dirsi funzionale alle esilaranti ire dell’ipotetico editore che grida chiaro in faccia che queste proposte, pappardelle non pubblicabili.
Accanto a questi che, a mio avviso, sono passi assolutamente falsi, quanto meno nel senso figurato dell’espressione “passi falsi” ci sono però altre cose di assoluto pregio in questo romanzo, non per niente ho cominciato questa recensione scrivendo che Francesco Cusa sa scrivere.
Sono pregevoli le scene del bar di Giovanni, in cui è palpabile l’immobilismo di provincia ma anche la sana ingenuità, l’essere scampati alla ferocia urbana, fantastiche ed effettivamente saporite le evocazioni degli enormi seni di Sally da “talmente belli da generare un senso d’infelicità”.
Ed in generale il piglio con cui l’autore descrivere l’attrazione di Vic per il corpo femminile e il fascino, anche se morboso o proprio perché morboso, con cui descrive i corpi, il corpo degli altri, il proprio corpo, la cura del dettaglio, la confidenza e la facilità che ha l’autore nell’evocare sapientemente e in maniera sempre varia e spesso straniante la materia, lascia veramente ammirati.
Anche i pochi dialoghi, specialmente quelli della gita alla presentazione del libro del falso libertino di provincia, o quelli del ritrovo con Marcello, Luisella, i quattro amici dementi e tutto il corteo di fantasmi rutilanti colgono veramente nel segno.
Da ultimo Vic, questo romanzo è scorrevole, al di là dei passi ridondanti, che ribadisco, mi è sembrato di trovare.
In definitiva una bella prova narrativa di Francesco Cusa,un romanzo audace e coraggioso che meriterebbe sicuramente molti più riscontri nel panorama letterario quanto meno nazionale e di cui mi sento caldamente di consigliare la lettura.
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