Un mio scritto dedicato alla scomparsa di Lelio Giannetto per il Giornale della Musica. - il:2021-01-02
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A LELIO
di Francesco Cusa
Chi scompare porta via con sé un pezzo del nostro vissuto.
Naturalmente.
Quando poi scompare un artista si chiude il sipario.
Si rimane al buio.
Senza luci.
Senza spettatori.
Al buio.
Passano i minuti.
Passano le ore.
Passano i giorni.
Poi uno si alza.
Cammina tentoni e con fatica ritrova la via d’uscita.
Eccola la luce del giorno con tutta la vita dentro.
Già.
Brulica ancora di vita questo mondo.
È trascorsa un’unica, immane notte.
Alle spalle, il teatro è chiuso, sbarrato, fatiscente.
Lelio Giannetto era un “teatro”. Di più, era il corpo, la panza, il culo, le braccia e le gambe della follia del teatro. Lelio, con quell’attaccatura dei capelli…
Pareva non cominciare dalla fronte, pareva non cominciare mai l’attaccamento della sua criniera, pareva quasi il prolungamento delle sopracciglia, quella folta chioma, pareva la chioma di una chimera.
Conobbi Lelio quando, boh? Sarà stato il 1989. A ben pensarci sono oltre trent’anni che ho a che fare, a fasi alterne, con questo straordinario, strabordante generatore di meraviglie e sommo fracassatore di palle.
Insomma, ci siamo presentati nel 1989. Allora ero appena arrivato a Bologna, e lui suonava nel locale della deliziosa Anna Assenza insieme alla buonanima di Vittorio Villa e al mitico Gianni Gebbia. Alla fine del concerto mi avvicinai, ciao di qua e ciao di là… in buona sostanza mi liquidò malamente. Se la tirava. Antipaticissimo. Vabbè, dopo qualche anno finimmo con l’abitare insieme, in quel di Laura Bassi a Bologna, con quell’altro pelandrone e gigantesco pianista che risponde al nome di Fabrizio Puglisi (vedi foto “La domenica delle pulizie”, in apertura).
Vi potete solo immaginare cosa abbia significato una simile convivenza. A voler sintetizzare era una specie di fratellanza punk-jazz-sicula-orientale-occidentale-vessatoria-goliardica, composta di generosità, tranelli, massacri e benedizioni (una volta entrò un pipistrello in bagno e io ero terrorizzato… avreste dovuto vedere Lelio bardato in una sorta di burqa colorato, marciare con un secchio in testa in direzione cesso. Dalla finestra a vetri assistevamo timorosi a una sorta di lotta accelerata, come in una comica degli anni Trenta che potremmo titolare: “Lelio e il Pipistrello”. Ah, avreste “anche” dovuto vedere la sua uscita trionfale: ”L’ho fatto uscire, l’ho fatto uscireeee!” Macché; il pipistrello si era nascosto dentro lo scaldabagno e, indovinate chi ebbe la peggio? Naturalmente il sottoscritto, durante una delle mie regali abluzioni notturne. Per giorni nessuno osò entrare in bagno e Lelio ebbe la geniale idea di attaccare un cartello sulla porta: “Attenzione, pipistrello in bagno!”). Potrei andare avanti per pagine e pagine… quante ne sono successe… non mi dilungherò oltre.
Vorrei dirvi che Lelio era/è così, “donchisciottesco”. Partiva/parte lancia in resta a bucare il culo dell’Accademia, il suo culo, quello degli altri, il culo del jazz, il culo della musica improvvisata, tutti i culi poggiati comodamente su poderosi scranni, ma anche quelli dei poveri cristi col culo per terra, il culo della Luna, il culo del Sole, il culo di tutto il sistema solare eccetera eccetera fino ad arrivare al buco di culo di Satanasso, del Demiurgo e via discorrendo.
Voleva sbucare dall’altra parte, Lelio, per smontare il resto dello Scibile a colpi d’archetto.
Se ci pensate bene, Lelio è stato una maschera del nostro tempo cosmetico, il “Giannetto”, una sorta di figura retorica, di Bagatto, di saltellante generatore di mondi, di scomodo agitatore sonoro.
Se ci pensate bene, Lelio è stato una maschera del nostro tempo cosmetico, il “Giannetto”, una sorta di figura retorica, di Bagatto, di saltellante generatore di mondi, di scomodo agitatore sonoro. Non stava mai fermo! La sua era una danza incessante, centripeta e centrifuga, un moto perpetuo metropolitano e di provincia, una sommatoria di segni che ti costringeva a prendere atto del “limite”, della crepa del sistema. Era tutto un fare: piglia di qua, molla di là, smonta a destra, rimonta a sinistra, e il contrabbasso, e l’archetto, e la rassegna, e i biglietti dell’aereo, e vaffanculo, e ti amo, mi inginocchio, ti voglio bene, vai a cagare, con te ho chiuso, sei un grande, mi hai fatto commuovere, Cusa va caca, e smorfie, a sacchi in testa, e piririripiri, e paraparapara, Lelio in che cazzo di B&B mi hai messo!, scendi, sali, chiudi, apri, richiudi, non aprire… ho perfino messo un suo messaggio alla mia segreteria telefonica come ghost track nel cd Psicopatologia del Serial Killer.
Distruttivo e creatore come solo uno del segno del Leone può essere, Lelio è anche una parte del mio vissuto, e si porta dietro tanta della mia luce e tanta della mia ombra, nonché gli ardori della nostra forza del passato. Terrò sempre una sua foto sulla mia scrivania, assieme a quella dell’altro mio amico fraterno Gianni Lenoci e, credetemi, non è retorica, mi piace pensarli adesso insieme come pura essenza di radice, ein sof, spirito puro, in altre parole santi, che questo diventano poi gli artisti.
Stasera soffia forte il vento nella mia nuova dimora e gli alberi ondeggiano a salutare il Lelio Don Chisciotte. Lo vedo risalire come una saetta in una spirale di cielo, nel buio della notte piovosa che si fa teatro, con i suoi occhi spiritati e la risata che scoppietta. Ma è stato un attimo. Sono riapparse adesso le sparute luci natalizie, che brillano della modestia delle case male addobbate. Paiono frequenze altre, distanti e siderali testimonianze del culto dell’uomo, cose che Lelio ha oramai superato per sempre e che rimangono attaccate a noi come orpelli di un presente che scivola inesorabilmente con le nostre lacrime.
Il mio gatto Lucrezio dorme sul divano. È il suo primo giorno, qui nella sua nuova casa. È il nostro primo giorno di sempre.
PS: Rimane l’enorme lascito del suo lavoro e il dovere morale di portare avanti la sua opera tramite un processo collettivo che possa raccogliere le sue infinite manifestazioni e la complessità della sua esistenza.
A LELIO
di Francesco Cusa
Chi scompare porta via con sé un pezzo del nostro vissuto.
Naturalmente.
Quando poi scompare un artista si chiude il sipario.
Si rimane al buio.
Senza luci.
Senza spettatori.
Al buio.
Passano i minuti.
Passano le ore.
Passano i giorni.
Poi uno si alza.
Cammina tentoni e con fatica ritrova la via d’uscita.
Eccola la luce del giorno con tutta la vita dentro.
Già.
Brulica ancora di vita questo mondo.
È trascorsa un’unica, immane notte.
Alle spalle, il teatro è chiuso, sbarrato, fatiscente.
Lelio Giannetto era un “teatro”. Di più, era il corpo, la panza, il culo, le braccia e le gambe della follia del teatro. Lelio, con quell’attaccatura dei capelli…
Pareva non cominciare dalla fronte, pareva non cominciare mai l’attaccamento della sua criniera, pareva quasi il prolungamento delle sopracciglia, quella folta chioma, pareva la chioma di una chimera.
Conobbi Lelio quando, boh? Sarà stato il 1989. A ben pensarci sono oltre trent’anni che ho a che fare, a fasi alterne, con questo straordinario, strabordante generatore di meraviglie e sommo fracassatore di palle.
Insomma, ci siamo presentati nel 1989. Allora ero appena arrivato a Bologna, e lui suonava nel locale della deliziosa Anna Assenza insieme alla buonanima di Vittorio Villa e al mitico Gianni Gebbia. Alla fine del concerto mi avvicinai, ciao di qua e ciao di là… in buona sostanza mi liquidò malamente. Se la tirava. Antipaticissimo. Vabbè, dopo qualche anno finimmo con l’abitare insieme, in quel di Laura Bassi a Bologna, con quell’altro pelandrone e gigantesco pianista che risponde al nome di Fabrizio Puglisi (vedi foto “La domenica delle pulizie”, in apertura).
Vi potete solo immaginare cosa abbia significato una simile convivenza. A voler sintetizzare era una specie di fratellanza punk-jazz-sicula-orientale-occidentale-vessatoria-goliardica, composta di generosità, tranelli, massacri e benedizioni (una volta entrò un pipistrello in bagno e io ero terrorizzato… avreste dovuto vedere Lelio bardato in una sorta di burqa colorato, marciare con un secchio in testa in direzione cesso. Dalla finestra a vetri assistevamo timorosi a una sorta di lotta accelerata, come in una comica degli anni Trenta che potremmo titolare: “Lelio e il Pipistrello”. Ah, avreste “anche” dovuto vedere la sua uscita trionfale: ”L’ho fatto uscire, l’ho fatto uscireeee!” Macché; il pipistrello si era nascosto dentro lo scaldabagno e, indovinate chi ebbe la peggio? Naturalmente il sottoscritto, durante una delle mie regali abluzioni notturne. Per giorni nessuno osò entrare in bagno e Lelio ebbe la geniale idea di attaccare un cartello sulla porta: “Attenzione, pipistrello in bagno!”). Potrei andare avanti per pagine e pagine… quante ne sono successe… non mi dilungherò oltre.
Vorrei dirvi che Lelio era/è così, “donchisciottesco”. Partiva/parte lancia in resta a bucare il culo dell’Accademia, il suo culo, quello degli altri, il culo del jazz, il culo della musica improvvisata, tutti i culi poggiati comodamente su poderosi scranni, ma anche quelli dei poveri cristi col culo per terra, il culo della Luna, il culo del Sole, il culo di tutto il sistema solare eccetera eccetera fino ad arrivare al buco di culo di Satanasso, del Demiurgo e via discorrendo.
Voleva sbucare dall’altra parte, Lelio, per smontare il resto dello Scibile a colpi d’archetto.
Se ci pensate bene, Lelio è stato una maschera del nostro tempo cosmetico, il “Giannetto”, una sorta di figura retorica, di Bagatto, di saltellante generatore di mondi, di scomodo agitatore sonoro.
Se ci pensate bene, Lelio è stato una maschera del nostro tempo cosmetico, il “Giannetto”, una sorta di figura retorica, di Bagatto, di saltellante generatore di mondi, di scomodo agitatore sonoro. Non stava mai fermo! La sua era una danza incessante, centripeta e centrifuga, un moto perpetuo metropolitano e di provincia, una sommatoria di segni che ti costringeva a prendere atto del “limite”, della crepa del sistema. Era tutto un fare: piglia di qua, molla di là, smonta a destra, rimonta a sinistra, e il contrabbasso, e l’archetto, e la rassegna, e i biglietti dell’aereo, e vaffanculo, e ti amo, mi inginocchio, ti voglio bene, vai a cagare, con te ho chiuso, sei un grande, mi hai fatto commuovere, Cusa va caca, e smorfie, a sacchi in testa, e piririripiri, e paraparapara, Lelio in che cazzo di B&B mi hai messo!, scendi, sali, chiudi, apri, richiudi, non aprire… ho perfino messo un suo messaggio alla mia segreteria telefonica come ghost track nel cd Psicopatologia del Serial Killer.
Distruttivo e creatore come solo uno del segno del Leone può essere, Lelio è anche una parte del mio vissuto, e si porta dietro tanta della mia luce e tanta della mia ombra, nonché gli ardori della nostra forza del passato. Terrò sempre una sua foto sulla mia scrivania, assieme a quella dell’altro mio amico fraterno Gianni Lenoci e, credetemi, non è retorica, mi piace pensarli adesso insieme come pura essenza di radice, ein sof, spirito puro, in altre parole santi, che questo diventano poi gli artisti.
Stasera soffia forte il vento nella mia nuova dimora e gli alberi ondeggiano a salutare il Lelio Don Chisciotte. Lo vedo risalire come una saetta in una spirale di cielo, nel buio della notte piovosa che si fa teatro, con i suoi occhi spiritati e la risata che scoppietta. Ma è stato un attimo. Sono riapparse adesso le sparute luci natalizie, che brillano della modestia delle case male addobbate. Paiono frequenze altre, distanti e siderali testimonianze del culto dell’uomo, cose che Lelio ha oramai superato per sempre e che rimangono attaccate a noi come orpelli di un presente che scivola inesorabilmente con le nostre lacrime.
Il mio gatto Lucrezio dorme sul divano. È il suo primo giorno, qui nella sua nuova casa. È il nostro primo giorno di sempre.
PS: Rimane l’enorme lascito del suo lavoro e il dovere morale di portare avanti la sua opera tramite un processo collettivo che possa raccogliere le sue infinite manifestazioni e la complessità della sua esistenza.
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