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Francesco Cusa - Official Website - Recensione di “Hereditary” di Ari Aster (9) - per Cultura Commestibile.

Recensione di “Hereditary” di Ari Aster (9) - per Cultura Commestibile.

2018-09-01

Sofocle: “la punizione porta saggezza”; una delle frasi chiave del film.
Lenti Carrellate, appartamenti in miniatura, atmosfere à la “Shining”, musiche stranianti, facce inquietanti che improvvisamente compaiono nello sfondo, rumori indefiniti, così comincia “Hereditary” della registra esordiente Ari Aster, film che ha stregato il “Sundance Film Festival”.
“Mia madre era una donna dai tanti misteri, aveva amici strani, rituali segreti...” dice Annie (una sensazionale Toni Collette) al funerale. “Hereditary” comincia proprio col funerale di nonna Ellen, vera chiave di volta di tutta la trama enigmatica di questo splendido lavoro, che rimanda (come più volte rimarcato da parte della critica) a opere quali “Rosemary Baby” e “Babadook”, oltre al su citato “Shining”, anche se a me ha ricordato, soprattutto per il meraviglioso finale, il capolavoro di Pascal Laugier: “Martyrs”.
Sono i silenzi, la sinistra luce del giorno proveniente dalla stanza della nonna Ellen a sconcertare lo spettatore nella prima parte del film, e poi le tracce sparse, i ritrovamenti che compongono via via il puzzle (fra le scatole di Ellen, libri come: “Appunti sullo spiritismo” e lettere della madre: “il nostro sacrificio impallidirà di fronte alla ricompensa”).
Gli scenari in auto ricordano quelli di “Strade Perdute” di Lynch, soprattutto nella memorabile e agghiacciante scena della tragedia che colpirà la famiglia per la seconda volta (non riveliamo nulla per non rovinare la trama).
E poi ancora attese, fino alle agghiaccianti scoperte: Peter immobile nel corridoio, le urla della sonnambula Annie, la telecamera che scende ad accompagnare le bare fin dentro alle tombe, le visioni distorte dalle pareti opache dei vetri delle porte, i lunghi corridoi della casa percorsi come labirinti, l’insistenza dello “zoom” sul microdettaglio, a sottrarre spazio alla narrazione, che viceversa si dipana per forza di simboli e di evocazioni surreali, lasciando libero corso alle fantasie dello spettatore. Il tutto è costantemente immerso in un’opprimente patina sonora, che avvolge e rende evocativi tutti i momenti del film, una costante vibrazione sorda e molesta interrotta solo dalle irruzioni della “relazione sociale”, dal particolare apparentemente inerte (lo zerbino): su ogni cosa incombe lo schiocco del palato della piccola Charlie (durante la visione se ne capirà il perché).
Il finale (memorabile e degno dei più grandi capolavori della storia del cinema) mostrerà la natura del rito iniziatico che coinvolge tutta la famiglia e che è inerente all’evocazione di Re Paimon, ovvero di uno degli otto signori dell’Inferno.
La ridda di simboli e rimandi del finale lascia spazio a molte interpretazioni: letterali, psicologiche, esoteriche.
Di più non ci sentiamo di scrivere, perché ogni ulteriore riferimento potrebbe corrompere la visione di quest’opera preziosa.
Da vedere, senza tergiversazioni di sorta.

Francesco Cusa