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Francesco Cusa - Official Website - Mia recensione di “The Hateful Eight” di Quentin Tarantino (9,5)

Mia recensione di “The Hateful Eight” di Quentin Tarantino (9,5)

2016-02-13

Film monumentale. Sono state dette già molte, troppe cose. Non mi dilungherò dunque sull’impressionante gioco di citazioni (“Ombre Rosse”, “La Cosa”, il cinema di Agatha Christie, Sergio Leone ed Elmore Leonard, il sangue di Sam Peckinpah e ci aggiungerei anche “Huis Clos” di Sartre), e andrò subito al nocciolo.
“The Hateful Eight” è un film di denuncia agli Stati Uniti d’America, così come lo è la serie più “tarantiniana” dei mondo dei videogame: GTA.
Ciò è evidente in maniera lampante: la lettera di Lincoln e la separazione in settori della taverna di Minnie, quasi a mimare uno spazio teatrale di rappresentazione dell’intera mappatura del paese.
Ma “The Hateful Eight” è anche ’la versione western di un altro film che narra della costituzione violenta e barbara della democrazia degli Usa: “Gangs of New York” di Martin Scorsese. Tale forza espressiva e di denuncia l’ho riscontrata in alcuni romanzi di Wu Ming, su tutti “Manituana”.
Raramente ci si trova di fronte ad un meccanismo ad orologeria di tale sofisticata perfezione. Tutto sembra scorrere lento, inesorabile e si incastra alla perfezione, come nelle meccaniche d’un cucù ticinese.

Nella cornice raggelata, nel biancore melivilliano che tutto avvolge - bianco “tremendo”, bianco infernale (“un uomo nel gelo darebbe tutto per una coperta”)-, si dipana la mirabile sceneggiatura di Tarantino, tenue filo rosso sangue d’una matassa tenuta in mano dalla Parche. Freddo e fiamma, stasi e vento, biancore e tenebre…e la porta, la maledetta porta che non ne vuole sapere di starsene chiusa (“Non aprite quella porta!”). Martello e chiodi, chiodi e martello.
Il Cristo che campeggia nella straordinaria scena di apertura, Cristo ricoperto di neve, Cristo che porta il pesante fardello della rappresentazione del divino qui, sulla terra, su questo raggelato Wyoming, martoriato dagli orrori della Guerra Civile, è il Redentore privato di carisma, vittima del freddo che raggela i cuori.
Otto personaggi, otto simboli, otto attori. La carta numero VIII dei tarocchi è quella della Giustizia. La Giustizia reca una spada a doppio taglio, e se osserviamo bene la carta, essa è sinonimo di equilibrio e perfezione, che non implicano necessariamente il concetto di simmetria (simmetria che era considerata dai costruttori di cattedrali come segno del diabolico, di una perfezione statuaria che è tipica dei corpi inerti, della morte). Inoltre, sempre a ben guardare, la bilancia è anch’essa asimmetrica (si evince che il gomito e la gamba sinistra fanno leva e ciò ha varie sfumature di interpretazione nella lettura, che può alludere alla truffa o viceversa all’invito a non essere troppo perfezionisti, a mimare la stasi, la morte). Ora: cosa accade nel film? Semplice: una donna deve essere consegnata alla forca per mano di un cacciatore di taglie: il Boia. Dunque è la giustizia che deve fare il suo corso, inesorabilmente, secondo regole e codici condivisi dalla comunità. Ebbene quale giustizia? Qui il discorso si fa complesso e questo ricorso al numero otto non può essere casuale. Ciascuno degli otto personaggi può vantare una sua propria idea di giustizia; su tutte campeggia quella dei neri oppressi del Maggiore Marquis, che trova legittimazione tramite un falso che gli consente di farsi strada nel West: la lettera del presidente Lincoln a lui indirizzata, documento farlocco che fungerà da sentenza, e che verrà declamato a celebrazione di una assurda, ma quantomai legittima impiccagione.
Le condizioni di cattività in cui nasce la democrazia americana vengono qui mostrate in tutta la loro vivida forza; ogni tassello della pellicola è una fucilata alla pancia dello spettatore, ogni inquadratura, un chiodo da schiacciare sulla croce simbolo del martirio. Il sangue che, nel sensazionale e travolgente finale, inonda il volto di Jennifer Jason Leigh, alimenta il lago di plasma su cui verranno erette le fondamenta di un sistema democratico costruito sulla violenza brutale e sul razzismo.
Il calvario di Daisy Domergue è simbolicamente connesso alla catena cui è legata al suo carceriere John Ruth. La loro simbiosi rappresenta l’ambiguità della condizione umana. Ogni scelta è in qualche modo corrotta, falsa, sbagliata. Tutti mentono in funzione di un dogma che non è “ideale” in senso platonico, ma disperatamente contingente, opportunistico. Assieme al cadavere di Daisy ciondola un pezzo di arto del suo boia, frammento monco del braccio mozzato del giustiziere, vilipendio del decoro e della forma, miserabile “resto” d’una figura leggendaria. (L’arcano XIII senza nome, che miete corpi e teste…). Non c’è pessimismo in Tarantino, semmai un bisogno di epuzione e di catarsi.
La zuppa calda: i fagioli ingurgitati da Terence Hill in “Lo chiamavano Trinità”.
Il preziosismo della caramella rossa fa le assi del pavimento della taverna: particolare che tornerà utile un’ora dopo.
Questo film è legato, da un punto di vista psicologico, al “Carnage” di Polanski, anche se “The Hateful Eight” ha una caratterizzazione dei personaggi molto simile a quella dei giochi di ruolo (e delle carte dei tarocchi). Insomma, ciascun personaggio è investito d’un magnetismo totalizzante, universale. L’individuo è dominato e agito kafkianamente dalla legge, e questa assume di volta in volta i contorni cangianti della soggettività culturale e del microcosmo degli avatar di riferimento.

L’assenza di passione è la vera essenza della giustizia.
(ci sarebbe molto altro da aggiungere).

Francesco Cusa