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Francesco Cusa - Official Website - Recensione di "Revenant" di Inarritu (8)

Recensione di "Revenant" di Inarritu (8)

2016-01-22

Inarritu ci tiene incollati alla sedia in questo suo “Revenant”. Fotografia sensazionale, scenari gelidi e sangue che scorre a irrorare le anime, a ridestarle dal sonno cui sembrano destinate. Già la scena iniziale dell’assalto indiano ai cacciatori di pelli (che ricorda per analogia quell’altra di “Salvate il soldato Ryan” di Spielberg), per non dire poi di quella dell’orsa che si avventa su Hugh Glass/Di Caprio, meritano la visione.
Il film è avvincente, a tratti crudo come pochi. Su tutto campeggia questa cristica passione di Glass, nell’ingiuria del fisico, nella menomazione, una sorta di martirio del corpo e dello spirito. E’ un’agonia lunghissima che ci accompagna per quasi tutto il film, tramite la sofferenza di un uomo che striscia, che guadagna i metri coi gomiti, fra le asperità, il gelo, e gli squarci malickiani d’una natura suprema, siderale.
La metafora dell’uomo strisciante è quella del verme, del soggetto deprivato di tutto che torna alla vita dopo esser morto, in una catarsi (quella del redivivo) che presuppone la fusione uomo/natura (in ogni suo ordine e grado) quale principio iniziatico della rinascita. Anche qui i riferimenti si sprecano: penso a “Into the wild” di Sean Penn, ma anche (per ciò che riguarda il martirio del corpo) a “La passione di Cristo” di Mel Gibson.
Sullo sfondo delle storie dell’America dei primi decenni del XIX secolo, fra traffici loschi, lotte intestine fra tribù e patti fittizi tra clan di colonizzatori, si consuma la tragedia personale di un uomo che è figlio di quell’epoca violenta, epoca in cui la brutalità e l’onore sono l’ombra sterile del graffio della natura, codici non scritti ma vibranti che sovrintendono le leggi dell’uomo. E così Hugh Glass percorre la strada della propria vendicativa passione, strada lastricata di ogni sorta di orrore, luminosa, tenebrosa, sanguinolenta, pura, percorso esterno e interno, intimo, fra le piaghe del corpo putrescente, incancrenito e rattoppato che trova requie e calore solo nel ventre squarciato di un cavallo.
L’acme del calvario si tocca al momento in cui Glass “rinuncia” alla vendetta terminale, al sacrificio necessario che viene delegato alla legge dei nativi, per quello che si rivelerà essere vano ma sublime gesto da consegnare all’Indicibile, all’equilibrio silente delle cose. Ogni cadavere - quello dell’empio e quello del santo - trova dignità e viene riconsegnato al ciclo delle permutazioni che non conosce limiti, etiche, o morali di sorta, partecipe com’è delle sottili trame ordite dalle Moire. Il difetto di “Revenant” si palesa tutto in questo iato tra la forza straripante delle immagini, delle maschere stravolte del volto di Di Caprio e la sua simbologia scarna e di prammatica che accompagna didascalicamente le vicende di un’epopea.
Stiamo comunque parlando di un film da vedere assolutamente, senza tergiversazioni di sorta.