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Francesco Cusa - Official Website - Recensione di “Whiplash” di Damien Chazelle (1)

Recensione di “Whiplash” di Damien Chazelle (1)

2015-02-21

Direi che è imbarazzante che un simile obbrobrio sia stato accolto dalla critica con tripudio (vincitore perfino del “Sundance Film Festival”). Raramente sono uscito da una sala cinematografica così nauseato. “Whiplash”, opera prima di Damien Chazelle, è un vero e proprio pasticcio, un film denso di contenuti grevi, rozzi e volgari, promulgatore di un’idea di musica e di estetica da caserma. Tuttavia è un film che occorre vedere, se non altro per constatare il livello della voragine in cui è sprofondata ogni parvenza idiomatica di senso, entro cui si è entropizzata ogni forma di relazione tra il jazz e questo “oggetto estetico alieno”.
Oggetto OGM che è la mera quintessenza d’una prassi senza indice di rapporto storiografico, letterario e stilistico con l’universo delle musiche afroamericane che pur pretenderebbe di rappresentare.

“Whiplash” è sostanzialmente un film cafone, una sottospecie di adattamento cinematografico di “Full Metal Jacket” (con tanto di “Palla di Lardo”) in chiave “jazz”. La qual cosa risulterebbe oltremodo comica (e chiaramente sono stati parecchi i momenti di ilarità durante la visione, tra mani piagate dalle ferite, urla, occhi iniettati di sangue, forsennate ricerche di velocità da centometrista sullo strumento ecc.) se non fosse, viceversa, l’aspetto drammatico della vicenda ad essere centrale nell’evoluzione di questo guazzabuglio.
Riportiamo a riprova di ciò alcuni frammenti di recensioni tratti dalle riviste specializzate e di settore: “La posta in gioco è diventare il miglior batterista in circolazione, oppure soccombere”, “Un film che regala inaspettati colpi di scena, come fosse un thriller. Invece, è il miglior film musicale degli ultimi anni”, “…per non portare mai il jazz allo spettatore ma lasciare che accada il contrario, mantenendo così un’integrità e una serietà da applausi”.
In verità il mondo del jazz di Chazelle è un mondo finto, irreale, immaginario, ideologizzato. Grotteschi, senza essere ironici, sono i rapporti da caserma fra musicisti (ci mancava solo il gavettone di piscio tipico del nonnismo d’un tempo), la metodologia didattica à la “Guantànamo”, la visione performativa della musica in perfetto stile da “body builder”, il concetto competitivo di “vittoria” applicato alla musica, per non dire delle abluzioni delle mani nel ghiaccio a lenire le ferite provocate dallo studio forsennato (il pluricitato Jo Jones avrebbe volentieri tirato una “piattata” a Chazelle) ecc.

Le ingenuità insomma proprio non si contano (perché poi mai ‘sto ragazzo sfigato si allena a quel modo non si capisce. Suona “free” in casa sforzandosi come in preda ad un attacco epilettico, quando ciò gli viene rimproverato è semmai la mancanza di precisione, di “timing”, di controllo ecc.). Sorvolando poi anche su questa sciagurata idea di jazz, vincolata agli anni Quaranta del be-bop, alla mitica Arcadia afroamericana che non trova riscontro poi nella prassi medesima dell’evoluzione di questo benedetto idioma, appare chiaro che il film di Chazelle è un maldestro polpettone denso di pulsioni romantiche, più consone ad uno “Sturm und Drang”, con tanto di musicista-eroe-titano. In altre parole, è il solito tributo che il jazz paga alla musica classica e che oramai potremmo paragonare alla mai risolta “questione meridionale”. L’apologia dell’arrivismo legata ai luoghi-feticcio, ai templi posti lassù, in un irraggiungibile Olimpo (“Figliolo potresti arrivare al Lincoln Center”), il nominalismo (“e’ diventato la terza tromba di Marsalis”) sono forse gli agganci più tristemente veritieri del film con la realtà miserabile di queste musiche, sempre più preda del delirio solipsistico da infante prodigioso, della fenomenologia da “Amici”.

La storia del ragazzino batterista di jazz e del suo tiranno persecutore Fletcher, che sotto le mentite spoglie di “Insegnante del Conservatorio” (la scuola ha un altro nome ma è la “Juilliard” di New York) esercita la sua sadica tortura, è un pretestuoso artificio utilizzato da Chazelle per fare “spettacolo” e non è motivata da alcuna urgenza espressiva. Perfino il curling avrebbe potuto assicurargli una migliore ambientazione di trama e sceneggiatura. Un film altamente diseducativo, nel senso più letterale del termine.
Whiplash (USA 2014)
di Damien Chazelle
Con Miles Teller, J. K. Simmons, Melissa Benoist, Paul Reiser, Austin Stowell.
Voto [Il Grandangolo No!] : 1
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