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Francesco Cusa - Official Website - Recensione di "American Sniper" di Clint Eastwood.

Recensione di "American Sniper" di Clint Eastwood.

2015-01-12

Tratto dall’autobiografia dello stesso Kyle, il film ripropone da un lato lo scarno cliché quotidiano del vissuto di un uomo cresciuto a pane e valori, fedele alla bandiera e alla manichea concezione di male e bene, dall’altro lo stacco surreale dello scenario di guerra, nell’intermittenza che segna le varie fasi di crisi del personaggio. Certamente è possibile aderire alla vicenda del cecchino e, volendo, leggere nell’omaggio alla vita di questo infallibile tiratore una qualche sintonia con la visione senile di Eastwood, magari di una sua palese identificazione con l’attuale scenario socio-politico, secondo uno sguardo pragmatico e poco critico. Oppure è possibile fruire queste grandi pagine di cinema come una sorta di transfert – proprio nel senso freudiano di morfologia dell’inconscio che si struttura simbolicamente nel corpo dell’opera, – ovvero di un vero e proprio passaggio del testimone che Eastwood consegna al pubblico, riportando fedelmente i fatti e le vicende nella nuda follia della guerra irachena. Di certo una visione troppo aderente non renderebbe plausibile il cortocircuito generato dall’inversione del concetto di eroe.
Il mondo di Kyle è tolemaico e governato dalle leggi del Fato. L’assurdo della guerra in Iraq è il buco nero della depressione che non può essere esplorato. Da qui, nella fissità di un universo di stelle e valori perpetui, il processo di straniamento del cecchino, che pare scindersi in due distinti personaggi: in guerra lo spietato e glaciale soldato, in casa l’uomo traumatizzato in preda ai fantasmi della battaglia. A partire da questi cardini, appare evidente che la forza del film sta tutta nella capacità evocativa delle immagini, nella forza simbolica dello scenario bellico che si alterna senza filtri a quello dell’ordinario e, altrettanto (in)verosimile familiare. Kyle ambisce a salvare tutte le vite, perfino quelle dei caduti in guerra, ma non riesce a vivere il suo Reale, la sua vita. È l’onirico-bellico che rivive nell’assunto lacaniano: “La realtà è una costruzione di fantasia che ci permette di mascherare il Reale del nostro desiderio”.
La mannaia giunge alla fine sotto il mascheramento di una ritrovato equilibrio, nel momento topico della tragedia e ancora una volta con l’irruzione della follia nel quotidiano (come nella Maggie di “Million Dollar Baby”, la paralisi che costringerà Frankie-Eastwood al gesto estremo): perdere la vita per mano di un ex reduce dopo essere sopravvissuti agli apocalittici scenari di guerra. È per queste ragioni che il cinema di Eastwood non è mai realmente descrittivo: lo è semmai falsamente; è letteralmente una “messa in scena”. I paragoni con i pur encomiabili lavori di una Bigelow possono essere efficaci fino ad un certo punto, giacché il nostro Clint mira sempre a quel nucleo irriducibile, al petit object a che è la roccia densa di significato, irriducibile che ci lega al significato dell’esistenza. L’immaginario ideologico di Kyle non trova posto dunque, paradossalmente, nell’accettazione della vita quotidiana, che è elemento succedaneo all’onirico bellico ove prospera il sogno ideologico individuale e di una nazione (la folla al funerale, a salutare la salma, nelle immagini di repertorio che scorrono sui titoli di coda). È ancora una volta l’Assurdo a porre termine ad ogni “resistenza” e a far breccia sull’Inganno, devitalizzando l’automa e restituendolo Kyle alla vita dello spirito, ai suoi fantasmi.

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