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Francesco Cusa - Official Website - Mia recensione di “A proposito di Davis ” di Ethan Coen – Joel Coen (8,5)

Mia recensione di “A proposito di Davis ” di Ethan Coen – Joel Coen (8,5)

2014-02-14

“A proposito di Davis” è un pezzo di rara poesia.
Difficile fare un film del genere, ammantato di grazia e disperazione, dolcezza e struggimento, tutto giocato sui valori espressivi intimi e la vacuità delle misteriose canzoni. Ci riescono due grandi come i Fratelli Coen, penso pochi altri.

E’ un viaggio epico in sottrazione, ciclico, che comincia con la celebre “Hang Me” (impiccatemi) e che dopo vagare errabondo tra la New York fascinosa dei primi anni Sessanta e la Chicago coperta di nevi, là ritorna, nelle strettoie del sogno infranto. Una sorta di Odissea in miniatura (il gatto si chiama Ulisse) dove alla magniloquenza delle gesta eroiche si sostituisce il contenuto ma superbo canto di chi sente in cuore d’avere una missione da compiere, per quanto vana, per quanto disperata. Llewyn, straordinario menestrello beat, percorre il suo viaggio con fermezza, tra mille avversità del destino (Fato) e raggiunge le sue Colonne d’Ercole (Chicago) tramite un viaggio in compagnia d’un terribile Ciclope (John Goodman).

La bellezza del suo canto, la potenza delle sue parole tuttavia paiono esser troppo sofisticate, essenza di bellezza senza aderenza, per un mondo che comincia a trasformare già tutto in “merce”, “prodotto”. Questo senso vano del fare, del mantenere la barra a dritta nelle avversità, trova bellezza estrema nella metafora del padre pescatore e dei banchi di sardine, in uno spaccato davvero commovente negli interni d’un ospizio, dove Llewin intona uno dei pezzi più struggenti al padre morente. In questo eterno, domestico, andirivieni, depauperato d’ogni prospettiva, sta la metafora del banco di sardine e della carriera spezzata di Llewin, personaggio prometeico contemporaneo. Storie di fallimenti e divinazioni.

Come a dire che la vita spesa per una missione, vale forse più d’ogni altra realizzazione, nella frustrazione, nella sofferenza, nella povertà essendoci sprazzi di sacro lucore, come d’uno sfiorire perpetuo. Un film che mi ha ricordato, per analogia, l’altro splendido lungometraggio di Sean Penn “Into the Wild”.

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