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Francesco Cusa - Official Website - Recensione di The Assassins "Love" a cura di Stefano Radaelli per "Tracce di Jazz"

Recensione di The Assassins "Love" a cura di Stefano Radaelli per "Tracce di Jazz" - il:2015-11-07

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Gli “assassini” colpiscono ancora.

Alla sua seconda uscita discografica, The Assassins, quartetto guidato dal batterista catanese Francesco Cusa, si conferma come una delle realtà più interessanti e positivamente provocatorie nel panorama della musica creativa italiana. Nonostante i cambiamenti in organico, i due dischi possono essere visti come due fasi distinte di un percorso artistico coerente, orientato alla ricerca di una proposta originale.

Alla sua seconda uscita discografica, The Assassins, quartetto guidato dal batterista catanese Francesco Cusa, si conferma come una delle realtà più interessanti e positivamente provocatorie nel panorama della musica creativa italiana. Nonostante i cambiamenti in organico – Giulio Stermieri prende il posto di Luca Dall'Anna all'organo Hammond, mentre al sax contralto Cristiano Arcelli sostituisce Piero Bittolo Bon – i due dischi possono essere visti come due fasi distinte di un percorso artistico coerente, orientato alla ricerca di una proposta originale, mai scontata e impietosa verso ogni cliché.
“The Beauty and the Grace” (Improvvistaore Involontario, 2012) facendo leva anche sull'estetica grindcore della copertina e delle note letterarie associate ai brani, brillava soprattutto sul versante della “pars destruens”, offrendo all'ascoltatore un concentrato esplosivo di accostamenti inaspettati, di atmosfere sulfuree (grazie anche ad un raffinato utilizzo dell'elettronica da parte del trombettista Flavio Zanuttini) e di riferimenti musicali eterogenei – dal jazz alla drum'n'bass, fino ai tala della musica indiana – impiegati e miscelati con sapienza e rigore.
“Love”, invece, si ascolta quasi come un'unica suite, in cui la ricerca di un linguaggio compositivo ed improvvisativo originale sembra tradursi nello sviluppo, dalla prima all'ultima traccia, di un messaggio musicale unitario, perfettamente organico: alla “pars destruens”, con la sua collezione di frammenti incandescenti di un universo musicale e culturale fatto esplodere senza pietà sotto gli occhi (le orecchie) dell'ascoltatore, segue così la “pars costruens”. Gli ingredienti stilistici sono più o meno gli stessi del disco precedente, ma l'intento creativo sottostante sembra orientato alla costruzione di un universo estetico, più che alla sua demolizione controllata.
A marcare la differenza fra le diverse ispirazioni evocate dai rispettivi dischi è anche l'intervento di due sassofonisti, Piero Bittolo Bon e Cristiano Arcelli, che figurano senza dubbio fra i migliori contraltisti attivi oggi in Italia, ma che offrono anche due approcci allo strumento e all'improvvisazione molto diversi. Lo stile di Bittolo Bon – influenzato, fra gli altri, da Steve Coleman e Tim Berne – deve la sua originalità ad una vena luciferina e iconoclasta che si presta molto bene all'ironia destrutturante e al gusto per il rovesciamento dialettico che animano il primo disco. Cristiano Arcelli, dal canto suo, è perfettamente a proprio agio con l'ispirazione più costruttivista del secondo, attingendo ad una vena lirica e offrendo rimandi alla tradizione – elaborati tuttavia in modo sempre originale e personale – che non mancheranno di suscitare l'approvazione anche degli appassionati di jazz più ortodossi.
Constatata la vocazione più “costruens” del secondo disco, resta tuttavia da capire in che genere di universo conduca l'ascoltatore, e, soprattutto, quale sia la natura di questa opera costruttiva.
“The Beauty and the Grace” ci proiettava in un immaginario da incubo: compassati autori di jazz tradizionale che sfogano le frustrazioni del mestiere compiendo efferati atti di cannibalismo, coperte elettriche che carbonizzano impietosamente i loro ospiti, bevande gassate ad alto contenuto di glucosio spacciate per panacee contro il junk food ecc.
Nonostante il titolo e la grafica ironicamente sdolcinata della copertina, tuttavia, anche “Love” è tutto salvo che un omaggio ad un'idea appiattita, banale o edificante di “amore” (l'ironia nei confronti dell'omonimo disco di Allevi è evidente) e non ha neppure molto senso interpretare il titolo nei termini di un generico e non meglio definito “amore per la musica” (che un musicista o un compositore “amino” la musica che fanno, dopo tutto, non è affatto una sorpresa). Tutto appare anche qui molto più sfumato, complesso e contraddittorio – e non ci si potrebbe aspettare nulla di meno da un navigato agitatore culturale come Cusa.
Alcuni passaggi del disco sembrano evocare processi alchemici, danze di elementi primordiali, o, come nell'incastro poliritmico di “Intricate Corvai”, ispirato ad un tala indiano, il computo di una sorta di matrice della creazione da parte di una qualche entità soprannaturale dedita all'instancabile manipolazione della materia.
A fungere da collante di questo universo inquietante e precario è quindi certo una qualche forma di “amore”. Ma di che genere di amore si tratta? A giudicare dalla voce infantile, non priva di una vena di compiaciuto sadismo, che ripete in modo insistente e trasognato la parola “love” nell'ultima traccia del disco, sembra quasi di trovarsi alle prese con quel genere di amore che solo un demiurgo capriccioso e sociopatico – assimilabile, per intenderci, al demiurgo della tradizione gnostica – potrebbe provare nei confronti della sua creatura imperfetta, disarmonica e irrazionale. Un amore al tempo stesso sincero e crudele, ingenuo e spietato, totalizzante e disperato.
Insomma: l'universo nel quale The Assassins ci proiettano è un universo tutt'altro che pacificato, tutt'altro che privo di contraddizioni o di frizioni. È, forse, un riflesso fedele del mondo in cui viviamo. Ma proprio nell'esibizione di queste contraddizioni e frizioni, così come delle oasi di bellezza asimmetrica e zoppicante che lo punteggiano, risiedono la freschezza, l'originalità e l'attualità di lavori come questo.